Un estratto che parla di perdita dell’ambiente, a partire dalle crisi affrontate da Mauro Van Aken nel suo ultimo libro, uscito poche settimane fa per elèuthera. Campati per aria, ovvero un’attento esame di come le culture sotto attacco riescano o meno a significare e ri-semantizzare gli elementi che cambiano intorno ad essa: fino a diventare minacciosi, come l’aria, l’acqua, i suoli, la vegetazione (per non sfidare la nostra immaginazione). Si apre l’interrogativo che proprio a partire da un testo antropologico si può porre: cosa dire della nostra cultura, se stia reagendo? Esistono strumenti adatti con i quali affrontare lo sfaldamento globale della nostra prima natura?
Ringraziamo Mauro Van Aken ed elèuthera per la concessione del testo e della copertina, e Renè Worni per le immagini del funerale degli ulivi del teatro Koreja ad Aradeo.
©️ dal documentario ‘C’era una volta l’albero’ di René Worni
Perdere: Crisi che rivelano
La crisi climatica a livello locale produce delle «crisi rivelatorie» che rendono pubbliche le tensioni nei sistemi di produzione e le capacità sociali e culturali di reagire a potenziali disastri. Molteplici narrative in tanti contesti non-occidentali denotano il senso di perdita che avviene all’interno dei cc [cambiamenti climatici]: perdita come scomparsa di paesaggi, morali ed economici assieme, perdita della capacità di orientamento nel tempo e nello spazio, ad esempio per le popolazioni transumanti tra i ghiacci in via di scioglimento o nelle zone aride, dove avvengono anche allagamenti inaspettati. Questi sentimenti di perdita sono assieme espressioni di lutto, che è tema fondamentale anche nella nostra cultura, con le difficoltà che ne seguono per non riuscire a elaborare collettivamente il lutto di paesaggi cognitivi, significativi, oltre che di risorse, che mutano radicalmente o scompaiono1. Il sentimento di perdita disorientante è molto evidente ormai da diversi anni nelle aree artiche, che insieme ad altre regioni (come le Alpi a noi vicine) subiscono le maggiori alterazioni dei sistemi climatici a causa dell’inversione termica: qui il tempo che cambia ha già disarticolato da decenni le percezioni del futuro delle popolazioni locali.
Crate (2008) mostra come presso i Viliui Sakha agro-pastorali del nord-est della Siberia, con cui ha lavorato per anni, dall’inizio del millennio siano sempre più frequenti le testimonianze preoccupate per il cambiamento atmosferico e ambientale: un «rammollimento» (softening) del duro e ghiacciato inverno, con un intensificarsi delle precipitazioni estive che rendono difficile la coltivazione del foraggio per il bestiame, cardine dell’economia e delle relazioni ambientali. L’inverno sembra «scomparire», e ciò è connesso localmente alla soggettivazione della stagione nella cosmologia locale come il «toro dell’inverno», una figura mitologica che impersona il passare del tempo e il ritmo economico e pastorale. Il mancato arrivo del toro mitologico annuale è fonte di un senso di perdita più morale ed esistenziale che meramente economico: se da un lato rende sempre più difficile la riproduzione del bestiame a causa della trasformazione dell’ecosistema della taiga, dall’altro destruttura la valenza simbolica degli animali che i Sakha mettono al centro dei loro sistemi familiari e delle forme di appartenenza. A causa dello scioglimento dei ghiacci, le transumanze invernali di cavalli e bestiame diventano sempre più difficili e rischiose, e lo stesso periodo di produzione di foraggio nella breve estate di tre mesi è messo a repentaglio per le piogge inedite. Cambiamenti che non sono avvenuti in un contesto statico: all’opposto, i Sakha hanno già vissuto notevoli mutamenti sociali, politici ed economici, che hanno portato a ridefinire un’economia domestica fondata sul sistema interconnesso tra parentela e bestiame, su una produzione di sussistenza di base animale (latte e derivati, oltre alla pesca), con un’intensificazione di beni di consumo e stile di vita consumista nelle giovani generazioni.
Le percezioni sociali dei cc sono quindi molteplici, ma tutte demarcano la dimensione di crisi esistenziale e di mancanza di una struttura di significati condivisi, dove perdere un ambiente è perdere sia le relazioni economiche che le strutture di significato. Se un proverbio ricorda che «sopravvivremo fino al giorno in cui i ghiacci dell’Oceano Artico si scioglieranno», le percezioni del tempo sono connesse all’idea del ghiaccio e del freddo come costitutivo dei Sakha o a marcatori ecologici, mentre il tempo «soffice» negli orti e l’arrivo di nuovi insetti sono percepiti come interconnessi alla scomparsa del periodo di gelo come catalizzatore ecologico e di senso:
Abbiamo bisogno di un freddo rigido qui. È così che sono organizzate le nostre vite, è così che lavora la natura qui. Il grande freddo è bene. Le malattie se ne vanno. Quando fa caldo nevica troppo e poi non è né caldo né freddo. Il caldo invernale influenza la pressione sanguigna della gente. E il caldo torrido estivo è diverso, umido e difficile per la gente da affrontare (ibid., p. 580, mia trad.).
Leduc ha analizzato la nozione inuit di sila, al centro del loro apparato simbolico ed economico, tradotta come «una forza immanente e in continuo movimento che circonda la vita inuit, spesso percepita come tempo atmosferico»; silatuniq a sua volta definisce «una ricerca sul contesto e sulle conseguenze nell’applicare le conoscenze, o nel capire come le nostre interazioni con ciò che ci circonda influenza ciò che ci circonda» (2014, p. 39, mia trad.). Piuttosto che definire una nozione di clima, sila definisce «lo spirito dell’aria», «colui che mantiene il tempo», «il respiro e sorgente di tutta la vita», ovvero ciò che ci circonda in modo dinamico e relazionale. Una definizione che ben mette in luce la dimensione processuale dei rapporti atmosferici, difficilmente delimitabili come oggetti, ma più come flusso avvolgente e immersivo. I cc non sono letti quindi come esterni all’umanità ma come processo base del proprio coinvolgimento. Importante è comprendere come i paesaggi nelle culture locali siano spesso personificazioni, relazioni sociali attive con ambienti non-umani dove ghiacciai, montagne mari, montagne e animali sono percepiti come esseri sensibili, a cui viene conferita agency, emozioni e interesse negli affari umani. I paesaggi, ad esempio quelli dei ghiacciai, sono identificati in figure spirituali o sacre. Il declino del ghiacciaio non è quindi un processo meramente materiale ma ha forte implicazioni sulle modalità in cui le popolazioni locali comprendono sé stesse e conferiscono significati in relazione all’ambiente che li circonda, anche nella perdita.
Nelle Ande peruviane, le popolazioni quechua che vivono vicino al ghiacciaio dell’Ausangate, in via di scioglimento, ritengono che la perdita del ghiacciaio sia associata alla catastrofica scomparsa della divinità Apu, Dio della montagna e manifestazione della pachamama o Madre Terra: un protettore dell’ambiente montano da sempre al centro della cosmologia di queste popolazioni andine e di molteplici riti propiziatori e di orientamento dell’economia verticale di montagna. Si ritiene che gli Apu si stiano però spogliando dei «white ponchos» e rilascino sempre meno acqua nel disgelo. Gli stessi rituali che raccolgono 70.000 persone nel bacino ghiacciato del Sinakara in occasione del pellegrinaggio sincretico chiamato El Señor de Qoyllur Rit’i (Il signore delle stelle di neve), che onora l’apparizione di un Cristo bianco proprio nelle vicinanze dell’Ausangate a 6.000 metri, sono in profonda modificazione. I leader rituali (ukukus o orsi in quechua), mediatori tra le divinità e i paesani, fanno i pendolari tra il villaggio e le divinità del ghiaccio; tradizionalmente tagliavano blocchi di ghiaccio trasportati poi in paese da condividere tra familiari, amici e bestiame come parte integrante del rito propiziatorio. Questo nettare sacro di Apu è ritenuto avere poteri terapeutici e di fertilità, oltre a irrobustire i bambini, ma a causa del suo graduale assottigliamento è stato vietato estrarre ghiaccio, con il controllo di guardie apposite; ciò anche perché nella cosmologia locale, quando scomparirà il ghiacciaio, si ritiene che un forte vento si alzerà per annunciare una nuova epoca.
Ciò che caratterizza questi cambiamenti è la dimensione intensamente emotiva, di cura e protezione reciproca, che mettono in gioco: è la cornice etica e morale, accanto a quella estetica, di condivisione dei tempi con il ghiacciaio (fonte principale, ricordiamo, di acqua irrigua e potabile) che mobilita la comunità all’azione; griglie etiche e morali che spesso rimangono fuori dall’analisi climatologica e dalle politiche climatiche. È solo partendo dalle dimensioni esperienziali e dai significati locali che si possono incentivare, piuttosto che reprimere, forme di cambiamento e di resilienza locali. Idee morali, spirituali, simboliche ed emotive del tempo in relazione al riconoscersi nel proprio luogo, che spesso rimangono escluse da definizioni desocializzate di clima nel contesto delle politiche internazionali o nazionali. I paesaggi sono animati per molte culture, sono emotivi come i paesaggi interni della comunità, aspetti importanti oggi all’interno delle politiche di mitigazione. Proprio per questo valore intrinseco dei saperi ambientali, come saperi anche atmosferici, l’antropologia può ora fare del cielo un «terreno», un «campo di ricerca» (De la Soudière, Tabeaud, 2009). Queste visioni soggettive ed esperienziali rimangono spesso a latere nelle discussioni sul clima del policy making proprio perché non si «conformano alle norme di un sapere riconosciuto promosso dagli scienziati dei paesi industrializzati – Stati Uniti, Canada, paesi europei, Giappone e Australia – che dominano il ipcc e altri forum internazionali» (Allison, 2015, p. 495, mia trad.).
I cambiamenti ambientali conseguenti ad alterazione dei sistemi climatici intaccano non solo l’economia delle risorse ma la capacità di significare il mondo: il senso di moralità e le forme di cooperazione sono messe a dura prova, proprio per la loro dimensione inedita e perturbante. I cc sono perciò una dinamica profondamente emotiva e di costruzione di significati, dal momento che «gli immaginari ambientali sono specifici dei contesti, sono connessi a discorsi morali che formano il modo in cui i popoli vivono, lavorano e giocano nei loro ambienti» (ibid., p. 501, mia trad.). Ciò ha a che fare con dimensioni di stupore e soggezione di fronte alle forze non-umane, elementi spesso sottovalutati.
Proprio i fallimenti di comunicazione della divulgazione scientifica, universalistica o quantitativa sui cc hanno portato negli ultimi anni a un cambiamento dei registri comunicativi nelle istituzioni come ipcc o unfccc, nel tentativo di includere maggiormente le dimensioni esperienziali e culturali, i saperi «indigeni», nei modelli di policy making. Le società da cui è nata l’economia del carbonio sono storicamente responsabili dell’inquinamento di gas serra e della conseguente alterazione climatica, ma sono anche quelle che sembrano meno esposte alle conseguenze dei cambiamenti accelerati. Ciò rivela solo una mezza verità perché, come mostrano gli incendi in California o in Australia, le dinamiche di scarsità d’acqua in Europa, o gli allagamenti e il dissesto idro-geologico in Italia, la vulnerabilità del sistema di protezione dipende anche dalla flessibilità delle istituzioni al cambiamento, fattore questo già ampiamente studiato dalla letteratura; viceversa, gli apparati burocratici rivelano spesso una grande difficoltà a modificarsi nel cambiamento a causa di forme di conservatorismo dei sistemi centralizzati, dove sistemi esperti costruiti su sistemi di abbondanza si ritrovano incapaci di modificarsi a fronte della scarsità (Van Aken, 2012; Lansing, 1991). Al contrario, sistemi decentrati di gestione delle risorse hanno mostrato una notevole adattabilità e flessibilità, che non va idealizzata, ma che risulta utile come risorsa culturale e istituzionale di fronte ai rischi e come strategia di resilienza dei sistemi cooperativi.
L’inedito, il fuoco che cambia
©️ dal documentario ‘C’era una volta l’albero’ di René Worni
Se il ghiaccio scompare, anche il fuoco cambia, come tanti altri attori nei cambiamenti accelerati. Lo studio di Petryna (2018) definisce gli eventi incendiari come «cambiamento incontrollabile». I megaincendi nelle nuove condizioni ambientali si mostrano inediti, con nuovi parametri fuori norma che mettono a dura prova i saperi di protezione consolidati e i saperi scientifici: gli ecosistemi cambiano radicalmente e così anche la nozione di fuoco e le sue abitudini. Attraverso uno studio etnografico condotto in California sul personale dei pompieri, sulle strutture anti-incendio e sugli scienziati, tecnici e ingegneri, l’antropologa rivela il loro stupore e sconforto, accompagnato da lutti, di fronte a un fuoco che si comporta altrimenti rispetto ad abitudini consolidate. Ciò apre nuovi spazi di incertezza: le forme di previsione tentennano, i saperi di protezione dal fuoco si mostrano disorientati e impotenti, mettendo a rischio le stesse competenze tecniche passate, i pericoli si fanno più difficili da percepire. L’area globale di incendio si è modificata ampliandosi del doppio, e gli incendi sono caratterizzati sempre più da combustioni che elevano pinnacoli di fuoco molto in alto nel cielo in nuvole di combustione, che raffreddandosi collassano nuovamente a terra diffondendo nuovi incendi in un ciclo continuo di propagazione dell’area del fuoco. Se una certezza provata era che gli incendi fossero alimentati dal vento, nel caso sempre più frequente a Los Conchas gli incendi bruciano con maggiore intensità e ampiezza proprio controvento: in questa nuova tipologia connessa all’estremo inaridimento del territorio, gli incendi si muovono con moto e correnti propri, autoalimentandosi, e aprendo quindi una crisi di senso delle stesse strutture di protezione. Queste tipologie di realtà ambientali inedite sono definite abrupt climate change (National Academy of Sciences, 2013), in quanto diventano moltiplicatori di minacce aprendo a forme di dissonanza cognitiva, uno «smettere di pensare» proprio all’interno dei saperi esperti. La dimensione distruttiva di questi nuovi comportamenti ambientali obbliga perciò a rivedere la nozione di ecosistema e di relazioni con il mondo anche negli stessi saperi applicati.
«La narrazione prevalente sugli effetti del cambiamento climatico a livello sia mediatico sia scientifico descrive principalmente orizzonti lontani dalla verificabilità del quotidiano» (Bougleux, 2017, p. 79). Allo stesso tempo, se ci mancano percezioni, connessioni tangibili di ciò che è saputo e compreso dalle narrazioni globali sui cc, viviamo tutti localmente disorientamento, pericolo accentuato di incendi, crisi d’acqua o di caldo tropicale nei contesti urbani, difficoltà ad acclimatarsi e orientarsi nella coltivazione anche in un semplice orto: già nella dimensione locale abbiamo percezioni locali disorientate, alla ricerca di risposte che con fatica si rendono condivise e collettive. Da qui il compito fondamentale proposto da Bougleux di «tradurre il cambiamento climatico in esperienza quotidiana e tangibile. Si tratta sia di una traduzione che di una ricollocazione semantica, si tratta di ‘appaesare’ il cambiamento climatico, frammentandolo e localizzandolo» (ibid., 2017, p. 80).
©️ dal documentario ‘C’era una volta l’albero’ di René Worni
Note:
1. La notizia che perderemo i ghiacciai alpini nei prossimi 40 anni tocca certamente una dimensione di lutto e scomparsa non elaborata socialmente, oltre a preoccupare per la perdita di risorse idriche.
Estratto da Van Aken, 2020. Campati per Aria. Elèuthera, Milano.