“Dimmi tu se non è la pioggia che incontra la terra secca a suggerire all’uomo come si impasta il pane”.
In alcune culture equatoriali elementi come l’argilla o il terriccio umido vengono consumati per riequilibrare le funzioni digestive, il loro uso contrasta gli effetti di piante locali tossiche. Altri popoli fanno ricorso a questa dieta per rendere più tollerabili odori sgradevoli. Nei soggetti appartenenti alle classi subalterne invece, specialmente nei periodi di carestia, era pratica diffusa inglobare nelle pagnotte di pane tutti quegli alimenti che non erano totalmente digeribili e commestibili. In ultimo può capitare che le donne in gravidanza, in modo particolare nei primi tre mesi, abbiano voglie che le portano a desiderare questo tipo di alimentazione.
Si tratta di un rapporto ancestrale che lega gli uomini alla terra producendo un rimando al grembo materno, ecologie dove le culture hanno instaurato e significato le relazioni tra uomini e ambiente circostante in una sinergia circolare, interrotta dalla medicalizzazione e dal progresso occidentale che etichetta tali pratiche come patologiche, frutto di “un appetito depravato”. Il legame tra uomo e natura è cosmologico e spesso viene richiamato e riproposto in diverse occasioni di metamorfosi, come feste e rituali. Aspetti che la modernità ha etichettato come arcaici e primitivi. Geophagia è un lavoro che intreccia poesia, materia e riflessione antropologica con l’obiettivo di suscitare una meraviglia incastonata tra archetipi, sacro e profano.
SINOSSI
Questa ricerca nasce dall’interesse alimentare nei confronti della tostatura del pane. La ricerca parte da una pratica locale, la creazione e il consumo di pane “tostu” tra le popolazioni contadine della Calabria: un metodo, per le classi subalterne, per conservare il pane e allontanare così la fame. Cibo rozzo e aspro – la ferocia borghese gridava: “mangiate pietre!” – questo pane sazia più di quello fresco, sazia più dell’ostia estetizzata che si scioglie facilmente in bocca. Il pane, oggetto polivalente nell’universo simbolico contadino, diventa nelle società povere soggetto culturale denso di molteplici significati nel quale la funzione nutritiva si impasta con quella terapeutica, la suggestione magico-rituale con quella ludico-fantastica.
Il rapporto metaforico con la geophagia è la sintesi tra le caratteristiche morfologiche dell’alimento e l’intervento materico che fonda le sue radici nell’impasto. Attraverso la deduzione della materia, il fenomeno naturale del fango permette la conoscenza dell’impasto. Il fuoco, infine, pietrifica. La geophagia è un comportamento Pica, un disturbo alimentare per lo sguardo medico, ed è spesso osservato durante la gravidanza. La parola greca “kissa” indica l’uccello Pica – conosciuta come carcarazza nel dialetto popolare: il suo schiamazzo preannuncia eventi inquietanti – e le voglie alimentari che le donne hanno durante i primi mesi di gravidanza e che lasceranno, secondo credenza, sul corpo del nascituro attraverso una macchia, un segno. A partire dal 1800, la psichiatria e lo sguardo coloniale denunciano la geophagia perché perturbante.
La ricerca genera un immaginario poetico e allo stesso tempo politico: varcando i confini geografici, portando con sé gli archetipi, suggerisce un discorso antropologico universale che vede nella geophagia la metafora dura e poetica del rapporto tra il pane e la terra che lo ospita. L’adulterazione degli impasti – pratica conosciuta dalle società subalterne durante i periodi di carestia – ha permesso di ricavare delle sculture fissate infine dal processo di pietrificazione del pane.
Tutte le fotografie sono di Mariano Monea. Si può farne uso riconoscendo i crediti e citando liberamente l’autore.
BIO
Mariano Monea, nato nel ’94, cresce in un piccolo paese di collina ai piedi delle Serre calabresi. Gli studi lo portano fuori regione: dopo aver concluso gli studi in fotografia all’ISIA di Urbino ritorna in Calabria portando avanti ricerche nell’entroterra, rivolgendo particolare attenzione sul paesaggio e le pratiche contadine. La sua ricerca lo porta a interrogarsi più volte sulle strutture antropologiche dell’immaginario e sulla poetizzazione del reale, un tentativo di mostrare i poteri dell’immaginazione ma soprattutto attivarla attraverso l’ambiguità dell’esistente. Dal 2019 collabora con il gruppo di ricerca MIM, Montagne in Movimento.
Per chi volesse approfondire: qui il video sul libro che esplora la ricerca di Mariano Monea sul Panu Tostu. Qui l’articolo in cui abbiamo parlato della gazza ladra con Stephen Muecke.