di Fabrizio Fanelli
Queste parole sono estratte dal progetto di un documentario ampio ed articolato, sul quale Fabrizio sta lavorando, partendo dall’esperienza di Diletta Bellotti, attivista e performer che da più di un anno si sta battendo per dare visibilità alle lotte dei braccianti agricoli sfruttati nelle campagne italiane. Come altri, Fabrizio e Diletta non sono rimasti indifferenti all’ignominia a cui si rischia di partecipare con le proprie azioni più semplici, ogni giorno. Basta comprare un qualsiasi prodotto di qualunque reparto ortofrutticolo gestito dalla grande distribuzione, e qualcuno direbbe che siamo complici morali dell’ingiustizia. Sono temi troppo grandi per essere semplificati, ma sicuramente suggeriscono della necessità di ripensare il lavoro della terra e ri-concettualizzare l’importanza e la dignità che il lavoro agricolo merita. Queste parole, quindi, ci dicono molto su come farlo: testimoniare, esserci, conoscere le biografie e le condizioni dietro questo sistema di approvvigionamento alimentare. Fondativa dell’agroindustria mondiale, questa modalità di sfruttamento dei corpi viene celata dal consumo come rito. Lo sciopero di ieri, 21 maggio 2020, si inserisce dunque in questo grande sforzo che non bisogna lasciare a se stesso: portare alla luce, far emergere un sacrificio, essenziale al funzionamento della catena del cibo all’interno del capitalismo e che rischia di tornare ad assumere il carattere inquietante di un segreto pubblico.
Un furgone sfreccia sulla statale Foggia-Trinitapoli, l’autista inesperto sbaglia marcia, il motore si blocca e il veicolo inchioda bruscamente. Le sedici persone stipate dentro il mezzo scendono e iniziano a discutere, rischiando di fare tardi a lavoro, di perdere la giornata o, peggio, di essere fermati dalla polizia; gli animi si scaldano subito. E. è un ragazzo robusto, non molto alto, ma risoluto: rapidamente afferra le chiavi dalle mani del guidatore e si mette al volante, accende il furgone, dà due colpi di clacson per far salire tutti di corsa e parte a tutta velocità, con le porte ancora aperte.
E., un ragazzo nato in Gambia da una famiglia francese benestante, non ha la possibilità di andare in Germania a fare il dj, come vorrebbe, e come fanno molti suoi coetanei, ma acquisisce in Italia lo suo status di clandestino: per questo non possiamo scrivere il suo vero nome o mostrare il suo volto. Vive nell’Ex-pista, a Borgo Mezzanone, come altre migliaia di migranti, confinato alle estreme periferie della comunità italiana che lo ospita, e viaggia su quel furgone bianco verso i campi di pomodori da mettere sulle nostre tavole. Come E., la maggior parte dei migranti non ha diritto ai servizi sanitari, a un contratto di lavoro che rispetti i loro diritti, a un conto in banca o all’affitto di una casa, sia per la discriminazione sociale sia per il mancato riconoscimento legale; lo stato italiano sembra accorgersi di queste persone solo quando si verificano tragedie su cui è impossibile tacere: come nell’agosto 2016, quando in un solo giorno dodici braccianti hanno perso la vita mentre andavano a lavorare. Inoltre, non vengono considerate le condizioni a cui sono sottoposti ogni giorno, ai contratti in grigio, per cui all’INPS per esempio risultano sessanta giornate di contributi, ma quelle reali sono invece trecentosessanta, prive di pause, senza limiti di tempo e senza rispetto della dignità umana.
Nel 2002 la legge Bossi-Fini introduce il reato di clandestinità rendendolo subordinato al lavoro: chi lavora ha diritto al visto, tutti gli altri sono clandestini, e crea così un circolo vizioso che genera sempre più emarginati, invisibili come esseri umani, ma ben presenti come “corpi produttivi” la cui sola ragione di riconoscimento è “essere” il lavoro. Con il decreto rilancio indietreggiamo di diciotto anni: la regolarizzazione di duecentomila braccianti, colf e badanti non è altro che la legalizzazione di braccia e corpi, riconosciuti dalla legge perché si rendano disponibili a lavorare per noi in un momento di crisi mondiale, schiavi di un sistema che si alimenta e sfrutta il loro impulso di sopravvivenza e la resilienza che li distingue.
Da quasi vent’anni gli immigrati in Italia affrontano il problema di non poter lavorare con contratto regolare, se privi di permesso di soggiorno e di non poterlo rinnovare senza un regolare contratto di lavoro, alimentando le fila dei disoccupati senza riconoscimenti sociali, che vivono con difficoltà il rapporto con le istituzioni e che si traducono in simbolo di una lotta universale per la parità dei diritti umani, che si riflette nelle comunità -come quella dell’ex-pista di Borgo Mezzanone- che loro stessi definiscono “Africa”, per quanto sia impossibile pensare che una realtà del genere sopravviva da decenni in un paese che si considera civile come l’Italia. Oggi, nonostante tutto, hanno una visibilità, conquistata a caro prezzo, ma la loro condizione migliora solo in apparenza (per i prossimi sei mesi in cui ci sarà bisogno di raccogliere i pomodori): quando finirà la raccolta stagionale e la necessità di braccia si dimezzerà, cosa sarà di questi visti temporanei? Cosa sarà delle persone che ora si rendono disposte a rimboccarsi le maniche per rimettere in marcia l’economia del nostro paese? Quante crisi economiche e climatiche, quante morti, quanta sofferenza dovranno ancora subire perché siano riconosciuti come esseri umani e non solo come forza lavoro indispensabile?
Studente di cinema, da circa un anno seguo Diletta Bellotti nelle sue proteste performative, da questa esperienza è nato l’interesse per gli emarginati e i dimenticati che mi ha portato a sviluppare questo documentario.
Tutte le fotografie sono di Fabrizio Fanelli