Scrivere nella pentola a pressione*

Corona prendi i capi, almeno loro

prendi le loro corone prendile

così che non dobbiamo farlo noi

Come mai ho sentito molto più degli anni passati l’arrivo della Festa della Liberazione, il 25 aprile? Come mai durante questa quarantena mi sono sentito così sensibile alla lotta sociale?

Una possibile risposta dovrebbe essere semplice e ovvia: lo penso perché sono esposto a un nuovo flusso di emozioni, a un nuovo tipo di situazione (molto specifica), e confermerei che non sono sensibile solo alla lotta sociale, ma sono più sensibile in termini generici. Non sarebbe sbagliato. Ma che senso avrebbe allora porre una domanda sulla Festa della Liberazione, sui partigiani e sulla lotta sociale, piuttosto che scrivere della mia sensibilità cresciuta in generale?

La possibile risposta, in questo caso, potrebbe essere più lunga e poco lineare. Credo che tutto sia nato dalla morte di Helin Bolek, cantante del gruppo Grup Yorum. Il 3 aprile, a 28 anni (quasi la mia età), è morta dopo 288 giorni di sciopero della fame trascorsi in prigione, in ospedale e poi a casa, a Istanbul, dove ci sono luoghi noti come “case della Resistenza”. Da quello che ho sentito, questi edifici brillano di una strana gioia spettrale: è lì che gli artisti muoiono e la loro passione riposa. Artisti in vita e in morte, come dicevano di lei alcuni amici di Helin.

Eppure, credo che già prima che arrivasse questa triste e notizia di cui avremmo fatto volentieri a meno (non credo che abbiamo bisogno di meno artisti, ma di meno dittatori; ma sicuramente ci saranno più artisti grazie alla scelta di Helin) fossi già ben disposto a sentire, a entrare in contatto con questo particolare argomento. Questo mi riporta a febbraio, quando la passione della mia compagna e l’inganno dei poliziotti (che si è trasformato in una trappola, orchestrata all’interno dell’università di Torino dal rettore Geuna e da un gruppo di fascisti) l’hanno portata a un ingiusto arresto di 4 giorni. 

Pochi giorni fa, un altro membro del Grup Yorum è morto nell’incommensurabile sforzo dello sciopero della fame, il bassista Mustafa Koçak. Era il giorno prima della Festa della Liberazione in Italia. I miei pensieri, allora, erano plausibilmente pieni della loro Resistenza: Mustafa è morto dopo 297 giorni di sciopero, durante i quali ha rifiutato cibo e cure mediche. Pesava solo 29 chili. Questi numeri sono come proiettili nel nostro cervello: come possiamo anche solo concepire di mettere insieme e concettualizzare un essere umano adulto in soli 29 chili? Eppure era più pieno di molti di noi.

Imprevedibilmente (davvero?) mi rendo conto ora di trovare al centro del mio disagio forme di fascismo. C’è fascismo nel regime di Erdogan. C’è fascismo nell’arresto della mia compagna. C’è molto fascismo nella storia dei partigiani italiani. E c’è molto fascismo, dobbiamo dirlo, in quello che mi ha procurato un mal di pancia duro, profondo, diffuso, con un’affilatura di coltello, la mattina del 20 aprile. Mi sono svegliato dopo 3 ore di sonno confuso, quando una mia amica di Torino mi ha chiamato dopo qualche giorno. Si sta cimentando nella sfida più difficile, quella di vivere in una palazzina che è un porto precario eppure sicuro, con famiglie arabe e nigeriane (credo che la metafora tra questa comunità e una nave vada approfondita). Ho risposto confuso, un po’ turbato perché stavo pensando (sognando?) molte cose sul coinvolgimento politico e su come alcune persone nei movimenti sociali non sappiano gestire correttamente la passione politica che proviene da attivisti “esterni”. Nei miei sogni confusi di quella notte, la politica non andava bene. Nessuna forma politica era buona. Ma volevo svegliarmi realizzando l’immagine, almeno il sogno dell’immagine delle forme del politico.

Quando la mia amica mi chiamò, mi svegliò, e improvvisamente sentii i coltelli che mi tagliavano lo stomaco con un ritmo imprevedibile. Ha capito subito che non riuscivo a parlare, e spero di non essere stato troppo scortese scrivendole: “Non ho capito il senso di questa telefonata”. Come ha detto un amico comune, siamo in una pentola a pressione. Credo che lei sia in una pentola a pressione più di me. La pentola a pressione non è il fascismo, però, è il blocco del Coronavirus.

Dopo di ciò, non sono riuscito a riaddormentarmi facilmente. Solo quando mio padre è entrato nella mia stanza (succede solo quando sono malato) con un infuso di camomilla, mi sono calmato. In quel periodo ero in un delirio silenzioso, ma dentro di me si affollavano immagini di poliziotti e urla forti, violente e insensate tra compagni che litigavano e si urlavano contro, durante le operazioni di polizia. Il giorno prima, il 19 aprile, è successo – di nuovo – qualcosa a Torino (una pentola a pressione molto significativa e grande, secondo me).

L’innesco è “discrezionale”: è discrezionale come e quando si agisce in un modo che si potrebbe giustificare, ma non lo si fa. I poliziotti e le poliziotte (c’era solo una donna, in realtà), hanno reagito con discrezione: il che significa, con un “certo” potere. Hanno reagito ad alcune urla che erano indirizzate a loro, alzatesi dopo che si erano “occupati” di un primo arresto. Pare che in corso Giulio Cesare, una delle zone più difficili e allo stesso tempo belle di Torino nord, sia avvenuto uno scippo di borse e la polizia sia intervenuta con il pugno di ferro. Ma non hanno gradito l’ironia della gente che gridava contro di loro, chi protestando per il loro presunto dovere di indossare maschere come tutti gli altri durante l’orario di lavoro, chi per l’inutile violenza che avevano scatenato. Molte cose si possono dire dal balcone di un anarchico (è successo tutto sotto un palazzo occupato da anarchici) guardando poliziotti bianchi che arrestano ladri non bianchi, soprattutto quando sei bloccato per settimane e il tuo governo ha mostrato, fino a quel momento, solo prove di inganno (come se a un anarchico importasse).

Eppure, in questa situazione, i poliziotti non hanno pensato che forse qualche manifestazione di protesta fosse “fattibile”. A loro discrezione, sono rimasti e hanno aspettato che gli anarchici scendessero le scale per la strada, sotto la loro stessa casa occupata. ‘‘Chiedete il mio nome e saprete tutto di me senza che io parli”: questa è discrezione. Quello che è successo poi è violenza, abuso verbale, fisico, psicologico, persino anticostituzionale se la prendiamo alla larga. Una volta che un poliziotto chiede l’identificazione a un anarchico, ha già chiamato i rinforzi, tre o quattro macchine tanto per dire, e un paio di uomini dell’Esercito. Una volta che una poliziotta ha cercato di calmarvi, vi dirà che non le lasciate altra scelta, ma continuerà a venirvi incontro, mettendovi con le spalle al muro della vostra casa occupata, con la gente che vi urla intorno, con le forze dell’ordine non mascherate che fanno tutto il contrario di come alla gente comune viene detto di comportarsi durante una quarantena. E le persone comuni, anche gli anarchici, devono farlo per rispettare gli altri (questo è il senso ingenuo ma condiviso della Legge – forse l’unico rispettoso) e la cosiddetta salute pubblica. Ma le forze dell’ordine ti prendono di mira con le loro mani non guantate e ti costringono in carcere, per 4 giorni, perché hai urlato alla vista della violenza (proprio come è successo alla mia compagna).

Questo è discrezionale. In carcere senza nemmeno sapere se si è contagiosi o meno (Le Vallette, il carcere in cui sono stati portati, è ora il primo carcere in Italia per numero di casi di COVID – mi chiedo che razza di pentola a pressione sia, una pentola a pressione dentro un’altra pentola a pressione). È così che funziona la discrezionalità: alcune regole valgono per alcune persone, non per il buon senso né per la polizia.

Molte cose come questa accadono senza che sia necessario scriverne un articolo, o senza che siano il luogo adatto per una lezione sulla violenza fondante dello Stato moderno. Ma questa cosa è successa nella pentola a pressione, dove ci troviamo adesso, con le particelle d’aria impazzite per la polizia che si scontrano, rimbalzano sulle pareti della pentola (che a voi sembrano scogliere) e feriscono tutte le altre particelle che cercano di rimanere ferme (voi, con il vostro pensiero molto duro) e immobili (per non far aumentare l’entropia all’interno della pentola a pressione). Ma all’interno della pentola a pressione si viene feriti dalle forze di polizia, che usano il loro potere di discrezione.

Arriviamo al 25 aprile, giorno della Liberazione. Con il Grup Yurum e i partigiani italiani in testa, mi piacerebbe uscire e camminare con i miei amici e con persone sconosciute che si sentono come me. La sensazione che nulla sarebbe più importante di questo ora, camminare per strada con tante persone, tutti noi che pensiamo e camminiamo verso un grande insieme di rivendicazioni, di valori, di significati di lotta. Su Facebook vedo i miei amici a Torino e a Roma che leggono lettere davanti alle targhe commemorative, che portano fiori rossi ai memoriali dei ragazzi e delle ragazze caduti contro i nazifascisti. Alcuni dei miei amici hanno la voce rotta, mentre prestano il loro corpo al ricordo. Lo fanno, a loro rischio e pericolo. Si possono vedere i loro occhi che si guardano intorno, al di sopra della telecamera, alla ricerca di qualcosa che potrebbe metterli in pericolo o, peggio, interrompere il loro appello a ricordare le vite sacrificate dei partigiani.

Scorrendo la mia finestra sul mondo esterno, il mondo reale al di fuori del parziale paese in cui sto vivendo durante questa quarantena, ecco che arriva un’altra terribile notizia di abusi. A Milano, un piccolo gruppo di “ricordatori” è stato aggredito dalla polizia. Nella mia finestra virtuale (lo schermo dello smart-phone) appare questo video, ripreso da una finestra reale di una strada reale della città: mostra persone che corrono, cercano di sfuggire a questa violenza ingiustificata (o semplicemente discrezionale), ma vengono afferrate. Uno viene caricato e buttato a terra, molti uomini per uno solo, mentre una donna viene colpita duramente al volto con una gomitata. ‘’Che cosa stai facendo?”, urla. Mi chiedo quanto di tutto questo sia stato ascoltato e recepito dal poliziotto. 


Sono sempre stato un fan dell’indeterminatezza: tiene gli occhi aperti su diverse opportunità. Ma è un concetto molto ambiguo. Lo stesso vale per la precarietà. Ti mantiene in attesa di nuovi usi della realtà, di nuovi adattamenti. Ma come l’indeterminazione, anche la precarietà è fatta di insicurezza. E questo non è molto piacevole. Mi chiedo quindi come sia possibile che io mi senta così vicino a questi concetti dal doppio volto. Un primo risultato della scrittura nella pentola a pressione potrebbe essere quello di distinguere la precarietà e l’indeterminazione prodotte dalla passione e quelle prodotte dall’abuso di potere.

Cosa serve per essere un testimone, o meglio, c’è differenza tra testimoniare ed essere un testimone? E se l’essere testimone richiedesse una distanza, come la persona che riprende dalla sua finestra la violenza della polizia, mentre il testimoniare il rischio degli abusi della polizia tenesse conto della concretezza stessa dell’essere in strada? Ci vuole un intero giro intorno alla “testimonialità” per mettersi in una situazione del genere. Vuoi essere testimone degli eroi della Resistenza, quindi cammini per strada fino alla targa commemorativa, e poi testimoni gli abusi della polizia, mentre qualcuno è testimone di ciò che ti sta accadendo. E grazie al suo video, posso sentirmi anch’io un testimone. Ma se si muore, o se si viene portati in una gabbia senza contatti con il mondo esterno per sempre, si smette di testimoniare, e io smetto di essere un testimone?

Pubblicare questo articolo potrebbe essere una forma di testimonianza, proprio come la persona che filma dalla finestra. Incanaliamo l’energia nervosa della pentola a pressione nella scrittura e nelle riprese, perché ci rende testimoni. Ma essere testimoni, credo, è il primo e l’ultimo punto del cerchio, dove tutto finisce per poter ricominciare. Come un tipo specifico di ritmo, la testimonianza deve accettare la passione immortale per coloro che si sono sacrificati, perché quello che dici non è quello che vedono. La testimonianza può essere la condizione di chi vuole vedere, ma fa parte dello stesso circolo, della stessa politica, della stessa passione, anche, di chi vuole raccontare: i testimoni diventeranno coloro che testimonieranno, e questo si ripeterà finché non costruiremo i più grandi monumenti a coloro di cui siamo testimoni: Partigiani e Grup Yorum. Potremmo essere molto scettici sulla costruzione di eroi e monumenti, ma li vedremo e racconteremo storie su di loro quando ne testimonieremo qualcuno.

*articolo pubblicato nel maggio 2020, ‘Writing in the pressure cooker’ tradotto dall’inglese