Sono un educatore professionale e per molti anni ho fatto “lavoro di comunità” soprattutto in contesti urbani. Mi sono occupato di famiglie, di giovani e di ambienti di vita cercando di permettere alle persone e alle comunità di emergere. Per anni abbiamo lavorato insieme (operatori e non) sperimentando metodi e strumenti di collaborazione e ricerca. Ho scoperto attraverso queste esperienze che quando si parla di processi partecipativi niente è mai banale e, in qualche modo, si tratta sempre di disegnare e realizzare architetture sociali efficaci nel dare forma a bisogni, desideri ed equilibri. L’idea alla base del mio lavoro è che siamo organismi reticolari e viviamo di relazioni che ci tengono connessi con i nostri mondi. Quella che chiamo comunità è qualcosa che emerge dal quel reticolo come se fosse il frutto di un lavoro comune realizzato in un laboratorio artigiano. Sono quindi abituato a pensare seguendo reti di relazioni che tengono insieme persone, spazi, oggetti, istituzioni e tutto ciò che dà forma alle nostre esperienze.
Quella che chiamo comunità è qualcosa che emerge dal quel reticolo come se fosse il frutto di un lavoro comune realizzato in un laboratorio artigiano.
Nelle ultime settimane ho lavorato in montagna senza andare in montagna, e per riuscire nell’impresa, ho dovuto imparare a maneggiare i miei consueti strumenti in un modo nuovo.
L’occasione è nata dalla partecipazione a un corso di formazione per operatori di comunità, che nella fase di tirocinio, mi ha dato l’opportunità di realizzare un breve lavoro di ricerca in alcuni paesi delle Valli di Lanzo, in provincia di Torino. Viaggiando nell’etere e via cavo, anziché muovermi “sul campo” come sono abituato a fare, la mia breve escursione “in remoto” -tutte le interviste sono state realizzate attraverso il telefono, fra novembre 2020 e gennaio 2021- mi ha fatto incontrare persone che mi hanno messo a disposizione racconti e preziose riflessioni dicendosi felici di farlo. Con alcune di loro ci siamo sentiti più volte finendo con il realizzare discorsi piuttosto articolati in merito allo scenario oggetto del nostro esame: la vita in montagna oggi. Inoltre l’esperienza della formazione, che ha coinvolto perlopiù personale “esperto”, è stata un’occasione di osservazione partecipante sull’evoluzione di linguaggi, retoriche e pratiche che stanno attraversando il mondo del sociale mentre ridefinisce i suoi contenuti tradizionali e si muove verso le possibilità di innovazione che emergono dal contatto con i problemi del presente.
Ho sempre considerato l’accesso diretto e immersivo al campo un’elemento fondamentale del lavoro di ricerca-azione e di conseguenza ho pensato che la distanza avrebbe condizionato il lavoro in modo negativo. Invece non è stato così e mentre mi attenevo alle prescrizioni dei diversi DPCM, mantenendomi nei confini del mio comune, ho scoperto che il telefono (una tecnologia la cui storia ha avuto inizio nel XIX secolo) poteva rivelarsi un alleato potente e funzionale. Seduto alla scrivania o al tavolo della cucina, a volte attraversando le diverse stanze del mio appartamento con carta e matita in mano, munito di auricolari e microfono, ho chiamo sconosciute e sconosciuti, preso appuntamenti, interrotto e ripreso conversazioni, chiesto amicizie sui diversi social media e in qualche modo mi sono messo in relazione e ho avuto accesso a una forma di campo che non so bene come definire.
Per poter lavorare da casa ho dovuto accantonare almeno in parte le mie abitudini e mettere in pratica, in modo originale, quelle routine inusuali che tutti utilizziamo quando le cose non vanno come ci aspettiamo che dovrebbero andare. Come quando arrivati alla cassa del supermercato non troviamo il prezzo del prodotto che vorremmo acquistare e, per gestire il problema, applichiamo delle procedure insolite ma non del tutto sconosciute: ci offriamo di correre a leggere l’etichetta sullo scaffale, ci scusiamo con i clienti in coda, la cassiera telefona a qualche collega in grado di risalire all’informazione che sta cercando, ecc. Quelle situazioni producono processi creativi che mettono in moto delle interazioni e queste, in qualche modo, producono un risultato più o meno efficace. È un lavoro faticoso, ma non impossibile. Bisogna uscire dalle abitudini nella giusta misura, quanto basta per improvvisare senza perdere la direzione. E bisogna farlo insieme partendo dalle circostanze.
La rete telefonica mi ha permesso di avviare rapporti, conoscere e imparare. In alcuni momenti mi sono divertito insieme ai miei interlocutori. Siamo riusciti a renderci presenti costruendo storie e discorsi. Nello stesso tempo questa modalità di lavoro “a distanza” ha prodotto interessanti analogie con alcuni aspetti della vita in montagna che in questi ultimi mesi hanno preso un particolare significato.
Per i piccoli comuni disseminati lungo le strade che percorrono i crinali alpini il tema della distanza è decisivo e palpabile. I borghi, secondo una definizione molto diffusa nel dibattito pubblico che li riguarda, ma non esaustiva e non necessariamente privilegiata nei racconti degli abitanti, sono insediamenti di piccole dimensioni che si trovano distanti dall’offerta di “salute, istruzione e mobilità”. Durante l’emergenza Covid-19 proprio questi tre fattori sono stati messi in crisi in modo esteso, e con effetti che si sono rivelati dirompenti e tragici, soprattutto nei contesti urbani in cui il confinamento domestico ha reso difficili le condizioni di vita di molte persone. E’ stato soprattutto nelle città che il nostro sistema sanitario, fondato sulla concentrazione delle prestazioni nelle strutture ospedaliere, è andato in crisi manifestando l’urgenza di una ridefinizione dei nostri approcci alla salute verso modelli orientati a una maggiore e più efficace diffusione territoriale. Inoltre, in città, il fascino di vivere in contesti in cui è “facile incontrare uno sconosciuto”, si è dissolto a contatto con le nuove esigenze di tipo immunitario.
In questo modo, e per molte persone, le montagne sono diventate oggetto di desiderio, come se fossero degli spazi di insularizzazione in cui rendersi immuni dai rischi, altrimenti comuni, della convivenza del vivere urbano.
Quest’anno in molti piccole località gli abitanti sono aumentati in periodi e con modi differenti da quelli consueti dei ripopolamenti stagionali. In due Comuni su tre fra quelli che ho analizzato sono state messe a disposizione tecnologie WI-FI e spazi di condivisione allo scopo di consentire lo smart working ai nuovi abitanti. Nel clima instabile di questa stagione di emergenze sono state adottate soluzioni, anche parziali e momentanee, che sembrano essere solo la parte visibile di un fenomeno più esteso che potrebbe svilupparsi nel prossimo futuro producendo metamorfosi più che significative.
Gli abitanti dei comuni di montagna che ho intervistato sono facilmente ascrivibili alla categoria dei “montanari per scelta” e sembrano molto consapevoli della ricchezza delle situazioni in cui vivono. Anche la distanza dalla città e da alcuni servizi, in un mondo in cui il trasporto privato ha una diffusione capillare, è ritenuta come un prezzo da pagare che è ampiamente compensato da altri elementi di valore. Fare parte di comunità coese, in cui ci si aiuta reciprocamente allo scopo di continuare a vivere “il paese”, è un’attitudine individuata come dimensione elettiva che facilita il dialogo con un ambiente salubre ed esteticamente apprezzabile.
L’elemento della distanza, riconosciuto anche nelle sue criticità, è interpretato spesso come una ricchezza i cui limiti possono essere messi a bilancio in un gioco di valutazioni che sembra orientato a dare un risultato positivo. In questa pratica di messa a valore hanno un ruolo significativo e performante i dispositivi materiali e immateriali che stanno ridisegnando i nostri ambienti di vita istituendo nuove configurazioni relazionali fra persone, oggetti ed entità biologiche come alberi, piante, animali, batteri e virus. Gli attori sulla scena a cui sto pensando sono i nodi di una rete di cui fanno parte i nostri corpi, le istituzioni, il mercato e i media che producono l’ambiente virtuale in cui viviamo. E poi i paesaggi coperti di neve che mi sono stati raccontati e che quest’anno ho visto soltanto nelle fotografie e, ancora, ovini e bovini che vivono nelle terre alte sopra a Lanzo, i batteri utilizzati per la caseificazione e infine gli alberi, i prati e le strade che non ho frequentato, ma che sono parte attiva dell’ambiente delle valli. E poi ancora le tecnologie sanitarie, gli elicotteri i telefoni e i fiori. Si potrebbe proseguire all’infinito ma è più utile provare a prendere in esame un contesto reale alla volta e tentare di scoprire quali sono gli elementi che danno forma alle diverse situazioni. Per ora, sembra corretto rilevare che, inserite nel reticolo ipercomplesso del nostro mondo, le montagne e le comunità che le abitano sembrano tutt’altro che entità povere e mancanti. Anzi, appaiono piuttosto custodire un valore che sta stimolando, con il suo semplice esistere, la messa all’opera di altre routine inusuali e performance creative che forse potrebbero diventare nuovi e migliori modi di abitare.