Epidemia 04 – Non c’è gioco | Senza Frontiere

Non c’è gioco | Senza frontiere. Scrittura Lotta Privilegio

 
 

 

Soumaila Sacko (illustrazione di Aladin Hussain Al-Baraduni)

Sono passati tre anni dall’ultimo numero della nostra rivista. Nel frattempo ci siamo comunque date da fare: abbiamo seguito e siamo intervenute in svariati seminari, abbiamo partecipato ad azioni collettive, ci siamo aiutate, ci siamo intrufulate in occasioni più o meno formali di dibattito, abbiamo fatto incazzare qualcuno e ci siamo interrogate su quale ecologia possia aiutarci a goderci questa esperienza.

Con Epidemia 04 abbiamo provato a raccontare alcune altre storie e vicende, maturate negli scorsi anni, che sono finite per ri-uscire fuori anche come parte inclusa in quell’ecologia a cui stiamo pensando. Abbiamo raccolto i contributi di studios*, attivist*, militant*, singoli e collettivi, che hanno avuto un confronto costante con questioni relative alla migrazione e ai confini. Le prospettive offerte, molto diverse tra loro, sono quelle di persone occidentali che hanno continuato a occuparsi negli anni, in varie forme, dalla ricerca critica, al supporto legale, alla condivisione di spazi abitativi e culturali, e che ci hanno regalato un pezzo della loro esperienza.

 

A seguire troverete l’indice dei contributi e la prefazione al numero. Se volete una copia potete trovarla nelle nostre librerie di fiducia o scrivendoci una mail.

 

 

 

Ecologia della frontiera
collettivo epidemia

Posizionamento
Questo numero di epidemia nasce dalle biografie recenti di alcunə di noi, degli ultimi dieci anni, che sono stati per noi gli anni dello studio. In questo periodo la questione delle migrazioni è piombata dentro le mura dell’università, ri-proiettando molta studentə sulle militanze antirazziste e le lotte in frontiera. Entrare in contatto con il pensiero decoloniale, con le esperienze vissute di migrazione delle persone che abbiamo incontrato, con tutte le forme di resistenza da loro messe in atto, e in cui siamo statə coinvoltə, ha trasformato il nostro modo di vedere la realtà. Abbiamo deciso di essere complici di chi vedevamo che intorno a noi si impegnava attivamente nel conflitto con le forme di esercizio/gestione del potere che determinano crimini come la detenzione, le deportazioni, i respingimenti, la ghettizzazione, politiche razzializzanti e razziste. Queste sono le voci che vogliamo trovino spazio nel numero 04 di epidemia, e che speriamo emergano dai testi e dalle immagini scelte per questo volume. Una raccolta di contributi che non parli di, per o persino al posto di chi ha attraversato deserti di terra, acqua, e la violenza quotidiana dello stato e della burocrazia; ma che molto più modestamente racconti gli eventi, i contesti e le pratiche che ratificano quotidianamente scelte di campo di persone e collettivi che cercano di fare i conti e mettere a critica il loro privilegio bianco europeo, di chi nasce e cresce dentro la fortezza. Nel porci questo obiettivo, non pretendiamo di dare rappresentazioni esatte della migrazione, o di raccogliere il senso che la migrazione ha nelle biografie delle persone che l’hanno intrapreso. La nostra intenzione è di restituire ciò che per lə autorə significa attraversare ed essere attraversatə, toccare ed essere toccatə dalle realtà migratorie a partire da condizioni, prospettive, e contesti diversi. Lo sguardo di chi ha fatto ricerca e militanza, in questi contributi può riconoscersi distintamente. Uno dei punti più importanti per Aimé Cesaire, è che scrivere significa parlare di altri.

Farlo: dare voce attraverso la scrittura, è possibile nella convinzione di raccontare la verità sulle cose, che non può che provenire dall’avvicinamento all’esperienza altrui. Se non possiamo riconoscerci interamente nel ruolo di parlare per, possiamo però ammettere i rischi della scrittura, qualunque scrittura; e provare a far sì che la nostra scrittura sia la trasmissione dell’esperienza, quella più veritiera a cui abbiamo accesso: la nostra e quella dei racconti che abbiamo ascoltato(1). In questo numero non troverete quindi contributi prodotti da persone razzializzate, ma la scrittura come risultato di un avvicinamento. Si può notare, in molti passaggi, come la distanza si possa fare più flebile, i punti di vista ri-configurarsi in una visione prossima, verso una militanza comune. È difficile affrontare l’argomento pensando che non vi siano differenze non appianabili tra chi può scegliere da che parte stare, laddove questa disposizione è imposta dalle leggi nazionali ed europee sull’immigrazione. In alcuni casi, la lotta per la libertà di movimento e le biografie di resistenza portano militantə e attivistə a conoscere da vicino la violenza della stessa legge che chiude le porte e perseguita chi si sposta senza i “giusti” documenti. I ‘reati di solidarietà’, in qualche modo, uniscono chi si pone dallo stesso lato contro il potere.

Parole come ‘solidarietà’ e ‘dare aiuto’, tuttavia, non sono neutre: bisogna prestare attenzione alla misura in cui queste sottolineano e ripercorrono il confine coloniale e razzializzante che fonda e su cui si basa il sistema d’asilo. Come sostiene Fiorenza Picozza, a fronte di un’etnografia svolta nel nord della Germania tra le reti autonome e solidali di lotta sulla frontiera,

«la divisione tra ‘volontarə’, ‘traduttorə’ e ‘rifugiatə’,
è cruciale per la colonialità dell’asilo perchè produce
soggettività razzializzate, naturalizzando, come pratica
governamentale radicata nella storia coloniale, la razza
come esercizio del potere amministrativo dallə europeə
(‘‘bianchə’’) sullə non europeə (‘’non-bianchə’’)»

Il libro di Fiorenza è un esempio alto di come un’autrice intellettuale militante italiana abbia intrapreso in questo decennio un percorso di lotta anche nella ricerca e nella scrittura. Questo discorso non vuole e mai potrebbe oltrepassare la realtà del fatto che chi supera la frontiera e richiede asilo è, in ogni caso, posto di fronte a particolari necessità e difficoltà, se non impossibilità, strutturali di poter ottenere i giusti documenti per condurre la vita che intende. Tenere a mente questo, significa non solo provare a osservare e ad agire collettivizzando la lotta contro l’ingiustizia sociale prodotta su un piano strutturale, che in modi simili e diversi non discrimina solo tra europeə e non, bianchə e non. È questione di privilegio. Militantə e attivistə interagiscono e ‘masticano’ – per riprendere un termine adoperato da Maurizio Veglio nel suo contributo – in modo diverso il loro ‘privilegio’ di razza, di classe, di genere, burocratico, politico, amministrativo, la loro accessibilità. Ciò che ha animato e ci ha aiutato a raccogliere i contributi per questo numero di Epidemia, è anche il sentimento di non voler necessariamente distinguere gli strumenti con cui chi, senza porsi e accettare limiti, porta complicità, impiega risorse e cospira possibilità alternative.

Crediamo che l’attivismo o le mobilitazioni, sia dentro che fuori le istituzioni, a fronte di un posizionamento autocritico, possano contemporaneamente attaccare le stesse logiche di criminalizzazione della libertà di movimento. Nelle parole di Franca Basaglia, riferite certamente a un altro ambito di azione, quello della lotta alla segregazione psichiatrica, il dentro e il fuori descrivono solo

«la natura dei legami burocratici e le responsabilità
legali presenti più in un settore che in un altro. In realtà
non esiste un “fuori totale”, ipotizzato invece dalla stessa
logica contro cui si lotta, a conferma della “totalizzazione
del dentro”: se esiste un fuori totalmente staccato dalle
istituzioni e dal sistema, il “dentro” si conferma come
inattaccabile. Ciò che importa è sapere cosa si fa fuori
o dentro, e quale legame fra dentro e fuori si riesce a
mantenere, per non cadere nell’errore di creare il dentro
come alibi del fuori, e il fuori come alibi del dentro.»
(crimini di pace)

 

Il gioco
C’è una breve poesia di R. D. Laing, psichiatra scozzese, portataci da un amico che ringraziamo, che è un po’ all’origine di questo numero di epidemia, e che riprende la similarità della storia e la medicina del corpo psichiatrizzato con quella del corpo migrante.

«Stanno giocando a un gioco. Stanno giocando a non
giocare a un gioco. Se mostro loro che li vedo giocare,
infrangerò le regole e mi puniranno. Devo giocare al loro
gioco, di non vedere che vedo il gioco».

(R. D. Laing)

The Game. Oggi, gravemente potrebbe richiamare il modo con cui lə migrantə si riferiscono al loro incessante tentativo di oltrepassare la frontiera balcanica. Ma, per noi, questa poesia esplicita l’inquietudine che permea le strutture del potere, perché svela quale sia il meccanismo su cui si basa il sistema dell’asilo. Cioè, l’importanza di dargli credito. Il pensiero alternativo di poter e voler scegliere quanto e come dare credito a questa prassi istituzionale, di in un singolo individuo o di un’intera collettività, delinea il potenziale mimetico e distruttivo di ogni corpo άτοπος di fronte al giudizio. Per Pierre Bourdieu, che scrive in una prefazione a un libro di Abdemelek Sayaad, l’immigrato, è Aτοπος, cioè «fuori-posto, inclassificabile», al punto da «costringere a ripensare interamente la questione dei fondamenti legittimi della cittadinanza e della relazione fra Stato e nazione, o nazionalità».

La poesia di Laing, immaginandola nel contesto di un’udienza di una commissione territoriale, mette quest’ultima a nudo. E crediamo che Bourdieu spieghi il perché. I corpi migranti sono corpi su cui legiferare nevroticamente, da incasellare e gestire attraverso ingarbugliati documenti amministrativi e penali. Ma il re è nudo, e crediamo che questi contributi possano aiutare
tutte e tutti a vederlo.

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Pensando criticamente a come siamo arrivatə a produrre questo numero, non possiamo non sentirci in controtendenza rispetto alle tematiche che fino ad ora abbiamo proposto allə nostrə lettorə. Quando abbiamo costituito questo collettivo di ricerca, i temi che affrontavamo non erano prerogative chiare delle agende militanti italiane, e neanche di quelle intellettuali, esclusa una ristretta cerchia di persone. Non era ancora soffiato, sulle braci di quelle che già da tempo confabulavano e studiavano questi temi, il vento dell’attenzione mediatica e politica, portato principalmente dall’emergere e l’affermarsi di due movimenti transnazionali come Extinction Rebellion e Fridays for Future. Siamo statə coinvoltə anche noi, e ancora lo siamo, specialmente nella proliferazione dei laboratori permanenti di ecologia politica in una discreta parte del movimento studentesco universitario e militante in Italia, in città e in campagna. Anche il nome che abbiamo scelto per questo collettivo di ricerca ha assunto un senso più compiuto quando la sindemia, e tutti i suoi portati sono stati vissuti a livello globale. Nel frattempo il nostro collettivo si è ripensato, è cambiato come componenti, e ha messo al centro del proprio (alle volte claudicante) incedere la creazione di una infrastruttura che sostenga i suoi membri di fronte a quelle grandi istituzioni pubbliche di cui l’accademia fa parte. Le nostre esistenze, nei loro vincoli materiali e immateriali, non possono essere disgiunte dall’azione collettiva epistemologica e politica. A cambiare non è stato solo il nostro collettivo, ma la tendenza generale dell’accademia italiana e non solo, che ha riorientato le sue risorse sempre di più verso questi temi, in tutte le loro declinazioni disciplinari – questo sì, sacro graal dell’accademia made in Italy. Anche chi voleva abitare uno spazio sperimentale tra movimenti sociali e pratiche epistemologiche ha iniziato a vedere con rinnovato interesse all’ecologia come ambito di studio. In questo senso, non possiamo fare a meno di notare una proliferazione di profili di accademici ‘engaged’ che sono passati dallo studio delle dinamiche di migrazione a quello dei conflitti ‘socioecologici’, dei processi più che sociali, in mondi non solo umani. Proprio mentre moltə ricercatorə ripensavano le loro traiettorie di ricerca e vincolo sociale in questa direzione, noi ci siamo trovatə allora a fare il percorso inverso. Non certo per spirito di originalità o rivendicazione di purezza: ci sentiamo assolutamente parte di queste inversioni di tendenza che moltə di noi hanno vissuto in prima persona. Avevamo bisogno di dare seguito a queste esperienze e creare dei collegamenti, di contenuti e di comprensione del mondo, con tutto quello che era stata la nostra e non solo elaborazione personale e politica. Sentimento che si è anche acuito di fronte alle migrazioni forzate prodotte dalle ecologie della guerra nel continente europeo.

Questo quarto numero di epidemia termina con l’intervista ad un autore che più di altri, abbiamo pensato, potesse servirci a tracciare questi collegamenti: ringraziamo Amitav Gosh per aver discusso con noi di ecologia e migrazioni. Nelle prime pagine troverete due contributi scritti a più mani, uno di Ciro De Vincenzo ed Edda P. Juarez, e l’altro a cura del collettivo Brisier le Frontieres. Entrambi gli articoli raccontano e danno testimonianze delle frontiere, quello spazio concreto e immaginario allo stesso tempo che «separa, seleziona e uccide». Alla messa in discussione della legittimità delle frontiere, e dell’orrore sociale che producono e che le produce, seguono gli articoli di Antonietta Fresa e quello a quattro mani di Ulrich Stege e Maurizio Veglio (fautori delle Cliniche Legali a Torino). Il linguaggio è al centro di entrambi gli articoli: il linguaggio dei tribunali e della legalità riguardante il diritto a stare (configurato come diritto di asilo) e come il linguaggio stesso debba necessariamente arrivare a mettere in questione le soggettività coinvolte con l’esecuzione e la messa in discussione del potere.

La parte finale della rivista riguarda la città e sono riportate, scritte in varie forme, le storie di persone la cui vita si è intrecciata con le lotte abitative. Mentre Fabiola Midulla ci regala un breve tratto della pandemia a Roma vissuta nell’occupazione abitativa del Selam Palace, sono principalmente gli articoli di Erasmo Sossich e delle donne dello Spazio Popolare Neruda, a raccontarci di Torino. L’articolo di Erasmo intreccia la biografia del compagno ‘Idrissa’, con la reclusione nel CPR (Centro di Permanenza per Rimpatrio) e l’occupazione dell’Ex-Moi. L’articolo, come quello dello Spazio Popolare Neruda, è il frutto di un’intesa che ha richiesto mesi di confronto e la costruzione di rapporti di fiducia e scambio nella lotta per prendere forma come testo scritto. ‘La storia di Fatima’ è la storia della fine della vita di una compagna, una vita che continua a vivere nelle parole scritte e nella lotta del Neruda. Fatima testimonia come la sua lotta contro la malattia sia stata una lotta contro la violenza strutturale razzista agita dalle istituzioni mediche sui corpi razzializzati. Il corpo malato che non riceve le cure, che non viene curato, che non si vuole curare perché si decide di rifiutare epistemologicamente la soggettività dell’Altrə, ci deve spingere sempre a interrogarci e a chiedere di conto di quale sia la natura del potere che, anche dentro gli ospedali, normalizza e nutre l’attacco a vite e mondi non allineati.

Ringraziamo Aladin Hussain Al Baraduni, della Biblioteca Abusiva Metropolitana di Centocelle, per il dipinto in copertina, per il tempo e le conversazioni che ci hanno aiutato a visualizzare il tema di questo numero di epidemia. Il dipinto è un ritratto di Soumaila Sacko, di 29 anni, maliano, bracciante agricolo ed attivista dell’Unione sindacale di base, ucciso nel giugno del 2018 a San Calogero, nel Vibonese.

L’opera di Aladin è un contributo a questo numero di Epidemia, come lo sono gli altri lavori contenuti. Nel riceverlo, come gruppo redazionale composto da sole persone bianche, prendiamo atto di come metta in luce le contraddizioni che animano non c’è gioco / senza frontiere. Pensiamo che la drammatica sovrapposizione tra i simboli e le vite raffigurate sul volto di una persona così assassinata esprimano con potenza il nesso tra scrittura lotta e privilegio. Ringraziamo Aladin di averci affidato questo prezioso messaggio e la testimonianza dell’assassinio di Soumaila Sacko. Capiamo che potrebbe innescare o suscitare emozioni spiacevoli a molte persone, sia a prima vista o anche dopo uno sguardo approfondito. Ci prendiamo quindi la responsabilità di pubblicare questa immagine in copertina, augurandoci che quantomeno il
nostro posizionamento emerga più chiaramente.

Note
(1) Per questa suggestione, ringraziamo Aliou Ba, scrittore e
letterato di base a Palermo.